Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza che colpisce le persone che hanno più di 65 anni, un termine generale che si riferisce alla perdita di memoria e di altre abilità intellettuali talmente grave da interferire con la vita quotidiana. Il massimo fattore di rischio conosciuto è rappresentato dall’aumentare dell’età, e interessa il 60-80% dei casi di demenza
Un gruppo di ricercatori dell’Università Campus Bio-medico di Roma guidato dal prof. Marcello D’Amelio, è arrivato a formulare una nuova ipotesi, che potrebbe spiegare l’origine della malattia di Alzheimer.
Abbiamo intervistato Marcello D’Amelio, professore di Neurofisiologia presso l’Università Campus Bio-medico, Direttore del Laboratorio di Neuroscienze Molecolari c/o IRCCS Fondazione Santa Lucia di Roma, dove dirige un team che studia le alterazioni molecolari e funzionali che si verificano nella progressione delle malattie neurodegenerative.
COME È DEFINITA LA MALATTIA DI ALZHEIMER?
La malattia di Alzheimer è la forma più comune di demenza, una condizione clinica, caratterizzata da perdita di memoria e di altre abilità intellettuali, talmente grave da interferire con la vita quotidiana. La malattia di Alzheimer interessa il 60-80% dei casi di demenza.
QUALI SONO, SE DISPONIBILI, I TRATTAMENTI PER LA MALATTIA?
Ad oggi, la malattia di Alzheimer è incurabile, sebbene siano disponibili dei trattamenti, che agiscono su alcuni sintomi non avendo effetto sul decorso della malattia.
PERCHÉ, NONOSTANTE I MOLTI STUDI E INVESTIMENTI IN RICERCA, NON SI HA A DISPOSIZIONE UN QUALCHE TRATTAMENTO PER LA MALATTIA?
Il fatto che non si disponga di farmaci efficaci deriva dal fatto che non conosciamo la malattia e ancora meno le risposte del cervello ad un danno cronico.
COS’È CAMBIATO, DOPO LA SUA RICERCA?
Il nostro studio sperimentale ha identificato e caratterizzato un’area del cervello, che degenera precocemente nel corso della malattia.
Quest’area, che prende il nome di area tegmentale ventrale, risiede in una porzione piuttosto profonda del cervello ed è molto ricca di neuroni, che producono dopamina, una molecola che viene rilasciata in diverse porzioni del cervello promuovendone il corretto funzionamento.
La perdita di questi neuroni non consente il rilascio di dopamina in aree coinvolte nella memoria (ippocampo) e nella motivazione (nucleo accubens). Questo mancato rilascio causa perdita di memoria e apatia, due segni clinici piuttosto importanti nelle prime fasi della malattia. Il fatto di aver individuato quest’area come una delle prime ad andare incontro a morte ci apre a nuove interessanti prospettive.
Prima tra tutte, cercare di caratterizzare funzionalmente quest’area attraverso studi di neuroradiologia, attraverso tecniche che possano evidenziare un’alterata funzione di quest’area del cervello nelle fasi precoci di malattia.
In secondo luogo, conoscere quali neuroni muoiono precocemente ci consentirà di direzionare i nostri studi, anche farmacologici, verso la protezione di quest’area del cervello. Non trascurabile: sono le conoscenze derivanti dalla descrizione di fattori ambientali che possono accelerare (fattori di rischio) o rallentare la morte dei neuroni di quest’area (fattori di protezione).
QUALI SONO LE CAUSA DI MALATTIA?
A questa domanda possiamo dare una risposta sommaria che deriva dall’epidemiologia, cioè dallo studio della distribuzione e della frequenza della malattia nella popolazione.
Possiamo, infatti, dire che solo il 5% dei casi è dovuto a forme eredo-familiari, ma il restante 95% sono forme non-genetiche, dette anche forme sporadiche. Le forme sporadiche sono associate ad una molteplicità di fattori ed il fattore di rischio maggiore è l’età: la malattia di Alzheimer è una malattia, la cui incidenza aumenta con il crescere dell’età. Ma altri fattori sono altresì coinvolti, quali ad esempio, pregressi traumi cranici, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia e molti altri. È tuttavia bene sottolineare che si tratta di un’associazione e non di una causa. Oggi con questa nuova scoperta abbiamo una conoscenza in più per verificare come questi fattori di rischio possano agire promuovendo la malattia.
SPESSO SI PARLA DELLA RELAZIONE POSITIVA TRA MALATTIA DI ALZHEIMER E SPORT: QUAL È IL SUO PUNTO DI VISTA ANCHE SULLA BASE DEI NUOVI RISULTATI?
Ecco, l’attività fisica come l’esercizio mentale sono definiti fattori di protezione. Anche in questo ambito abbiamo solo riscontri di tipo osservazionale, nel senso che sono stati seguiti, nel tempo, soggetti che praticavano un’attività fisica e in questi è stata studiata l’incidenza di malattia confrontata con altri soggetti che non facevano attività. Uno studio americano, ad esempio, ha preso in esame circa ventimila donne, tutte ex infermiere, seguite per 6 anni. Le donne con più di 1,5 ore settimanali di esercizio fisico, incluso il camminare, rispetto a quelle con meno di 40 minuti, avevano una prestazione cognitiva più alta e, nel tempo, dimostravano una minore perdita funzionale cognitiva. Questo è un tipico esempio di studio correlativo che, però, nulla ci dice sui meccanismi, che, associati all’attività fisica, ci proteggono dal deterioramento cognitivo.
QUALI SONO I TEMPI?
Questa è una domanda davvero complessa. Siamo certi del fatto che la conoscenza della malattia è un requisito fondamentale per l’individuazione di una qualsivoglia strategia terapeutica: oggi la malattia è un po’ meno misteriosa! Ci auguriamo che il resto del mondo scientifico si avvalga dei nostri risultati per raggiungere il più velocemente possibile una terapia efficace.
Luigi Cavalieri (Giornalista)
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